Frequentando il mondo del vino naturale, è facile imbattersi nella questione delle denominazioni (in Italia: DOC, DOCG, IGT, ecc). Vengono presentate al consumatore come una garanzia di qualità, ma molto spesso nascondono escamotage industriali per vendere prodotti da materie prime scadenti.

Anche nel più vicino ambito di web design e grafica, ho sempre trovato buffi i professionisti che si vantavano (con vere e proprie hall of fame sul proprio sito o con post sui social) di aver preso questo o quel premio.
La ragione è che i premi li vinci solo se partecipi ai relativi concorsi e, in vent’anni di lavoro in cui ho incontrato centinaia di professionisti, anche molto bravi e stimati, solo 2-3 di questi erano soliti partecipare ai contest.
Quindi, che valore ha quel premio se tutti gli altri non partecipano?
E a chi serve davvero quel premio, se la maggior parte dei colleghi lavora in ogni caso e anche con buoni clienti?

Sarebbe come dire che la migliore musica prodotta in Italia è solo quella premiata a Sanremo.

nel corso degli anni,
il nutrito arsenale di pagelle e pagelline è andato quasi in estinzione,

lasciando spazio al magico mondo dei premi.
Ardui da contestare, facili da abbinare a qualche utile sponsor,
pressoché invisibili agli occhi dei consumatori.
Dietro le stelle, Valerio Massimo Visintin

Nel suo libro, il critico gastronomico Visintin racconta di quanto, anche nelle guide enogastronomiche, l’assegnazione di stelle e punteggi sia subordinato ad una serie di fattori assolutamente non trasparenti, legati a sponsor, a favori, conoscenze, interessi personali, ecc.

Un altro esempio di “bollini” che non garantiscono qualcosa al 100% sono le certificazioni dei cosidetti prodotti biologici (cosidetti perchè un prodotto non “è biologico” semmai “viene da agricoltura biologica”).
Le certificazioni vengono pagate dal soggetto da certificare, processo che potenzialmente molto poco trasparente, affidato esclusivamente alla serietà delle due parti coinvolte.
Inoltre, “biologico” si riferisce, come accennato, al tipo di agricoltura adottata in sede di produzione, ma non dice nulla riguardo cosa succede dopo: come viene trattato quel prodotto una volta raccolto?
Ancora una volta un ottimo esempio è il vino, che anche se proveniente da agricoltura biologica, non ha garanzie sui processi cui è sottoposto in cantina.

Ed eccoci allora al punto: titoli/premi/denominazioni/stellette servono dove la sostanza non parla da sola:

  • al supermercato,
    dove il consumatore non ha una guida che gli spieghi la differenza tra un prodotto di qualità e non
  • nei concorsi pubblici o nelle gare,
    dove non partecipa l’intero settore, ma solo chi (anche legittimamente, ovviamente) non è già soddisfatto con i propri clienti e il proprio flusso di lavoro
  • nel mondo della ristorazione,
    effettivamente troppo vasto, globalizzato e sfaccettato per poterlo attraversare senza perdere l’orientamento

Sono strumenti che hanno come obiettivo principale non quello di informare il consumatore e garantirgli la qualità, ma quello di vendersi meglio.
Quello dei titoli e dei premi è un mondo, di fatto, basato sull’ignoranza
, sulla distanza che c’è tra il consumatore ed un dato settore. Perchè sappiamo bene che “gli addetti ai lavori” di ogni settore, in separata sede, sanno bene chi è davvero meritevole e chi no e spesso i giudizi non pubblici degli esperti si discostano dai giudizi ufficiali.

C’è un’alternativa?

Opposto a questo paradigma, ci fu qualche anno fa il movimento Genuino Clandestino: una serie di produttori che portava al mercato i propri prodotti senza averne licenza, ma mettendoci la faccia, ovvero ciò che consideravano la massima garanzia che un essere umano possa offrire.

Ora, Genuino Clandestino magari è un estremo, ma dovremmo ripartire da qui: dall’esperienza diretta, dalla qualità reale del prodotto/servizio, dal rapporto di fiducia con il consumatore, invece di nasconderci dietro dubbissime certificazioni.