Lo sfruttamento si nutre dell’ignoranza, da sempre, lo sappiamo.

Quando la Scuola di Francoforte teorizzò l’Industria Culturale, aggiunse alla denuncia di questo fenomeno il fatto che l’ignoranza e la vendita sarebbero stati perpetrati dallo stesso strumento: i media.
Allora era la tv, oggi i social, ma la dinamica è la stessa: perchè tu voglia acquistare, ti racconto – e con parole sfavillanti – un mondo fittizio a cui farti aspirare.
Al danno della manipolazione si aggiunge la perdita dell’alternativa tradizionale, di solito molto più genuina, per cui dimentichi come si fa, che sapore aveva e perchè era importante.

E questo è lo svuotamento di senso che dobbiamo combattere.

Questa situazione fa proliferare l’appropriazione culturale: quel fenomeno per cui prendi i tratti, lo stile, i contenuti di una cultura che non ti appartiene (ad esempio, quella dei nativi americani o la cultura contadina) e li usi per attirare il favore delle persone legate a quella cultura.

Ormai è all’ordine del giorno per cui nemmeno ci indigniamo più, ma se le grandi industrie si appropriano delle tematiche del piccolo agricoltore parlando di biodiversità, sostenibilità ed ecologia, di fatto gli toglie gli strumenti per esprimersi e li svaluta.

Ancora una volta l’unica arma per difendersi è la conoscenza.
Conoscere a fondo la propria realtà vuol dire accedere a qualcosa a cui l’azione massificante dell’industria non può arrivare. Di fatto l’autenticità vera rimane uno dei pochissimi vantaggi competitivi.